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Non solo Francia e non solo musica. Georges Brassens è una delle figure più luminose della cultura del Novecento grazie alle sue centoquaranta canzoni, pubblicate fra il 1952 e il 1976. In Italia molti lo hanno tradotto, pochi hanno conosciuto veramente il suo misantropo genio di chansonnier senza tempo, le sue ballate insolenti ed eleganti, feroci e ironiche, anarchiche, misogine e femministe insieme, molto prima di ogni battaglia di genere. È l'universo degli ultimi che ascendono a un paradiso di solidarietà, riscatto e compassione, come il becchino che si scava da solo la fossa, il disgraziato segnato a dito dai benpensanti del paese, la prostituta che si ribella al suo protettore. Negli inferi della poesia di Brassens sprofonda senza appello chi vuole imporre la propria autorità, come il giudice del Gorilla, o il proprio pensiero, come in Mourir pour des ideés, molto più potente della versione proposta da Fabrizio De André con eleganza ma senza la profondità dell'originale. Ecco, il problema di Brassens in Italia è legato proprio alla "riduzione" della sua poesia attuata da alcuni cantautori che hanno tentato, senza ovviamente riuscirci, di restituire la purezza delle emozioni dello chansonnier. L'affinità del francese con il piemontese e il milanese hanno prodotto traduzioni perfino divertenti (rispettivamente Fausto Amodei e Nanni Svampa) mentre De André non solo ha riproposto in italiano con successo alcuni brani di Brassens, ma ha fatto propri temi, teorie e immagini che saranno alla base di tutta la sua produzione. Prima però c'è Brassens, in tutti i sensi.
Prefazione di Beppe Chierici.
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